In occasione della Giornata della Memoria del 17 gennaio, il Presidente della Fondazione Insigniti OMRI, Prefetto Francesco Tagliente, desidera ricordare un capitolo di storia meno conosciuto, ma altrettanto importante, che purtroppo non ha ricevuto la giusta attenzione da parte degli storici, se non da alcuni studiosi, come Andrea Chioppa, Vicepresidente dell’Università della Terza Età di Crispiano e coordinatore del comitato “Campo S” di Taranto. Un capitolo che rischia di disperdere la memoria e le testimonianze visive di un luogo che rappresenta un pezzo fondamentale della nostra storia.
Riscoprire la storia del Campo di concentramento di Sant’Andrea, alle porte di Crispiano (TA)
“Non tutti ricordano – sottolinea Tagliente – che durante la Seconda Guerra Mondiale, a Taranto fu costruito un campo di concentramento, conosciuto come ‘Campo S’ o ‘Campo di Sant’Andrea’. Questo campo, oggi situato tra le masserie Caselle, Torre Bianca, Sant’Andrea e Torre Rossa, nelle vicinanze dell’attuale quartiere Paolo VI, fu istituito con l’obiettivo di raccogliere prigionieri di guerra, principalmente italiani, ma anche di altre nazionalità, per poi smistarli in altri campi di prigionia.
Anche se il campo fu demolito nel maggio del 1946 – prosegue Tagliente – le fotografie aeree ancora oggi ci permettono di osservare i basamenti delle baracche, parte dell’impianto fognario, le strade e i tracciati delle recinzioni. Alla fine del conflitto mondiale, il campo ospitava circa diecimila prigionieri italiani, suddivisi in dieci grandi recinti o ‘pens’, come li chiamavano gli inglesi. La maggior parte di loro proveniva dai combattimenti in Grecia e Africa Orientale, ma anche dalle formazioni della Xª MAS. Tra i prigionieri c’erano anche ex prigionieri italiani deportati dai campi di prigionia britannici nelle colonie, oltre a quelli provenienti dai campi in Algeria e Tunisia. Alcuni erano stati catturati prima dell’8 settembre 1943, altri dopo l’armistizio, nelle isole dell’Egeo.”
Le condizioni di vita all’interno del campo erano terribili. I prigionieri, privi di letti, costretti a dormire sulla terra nuda, esposti al freddo e senza servizi igienici, si nutrivano con razioni alimentari insufficienti, e molti morirono di fame e malattie. Per questo motivo, i giornali dell’epoca lo definirono “Il campo della fame”, a causa della drammatica carenza di cibo e delle disumane condizioni igieniche.
In risposta a questa tragedia – aggiunge ancora Tagliente – la popolazione delle comunità tarantine si mobilitò per aiutare i prigionieri attraverso varie organizzazioni umanitarie locali, come l’Arcivescovado, la Croce Rossa, l’Ente Comunale di Assistenza e diverse associazioni private. La solidarietà e l’impegno dei cittadini furono fondamentali nel migliorare le condizioni di vita dei prigionieri. Un ruolo di grande importanza fu svolto dall’Arcivescovo Mons. Ferdinando Bernardi, che si distinse per il suo impegno umanitario, così come da altri sacerdoti, tra cui il vicario generale Mons. Guglielmo Motolese, che lavorarono instancabilmente per portare aiuto e conforto ai prigionieri.”
Il Corriere del Giorno, marzo 1946
Nel marzo del 1946, il Corriere del Giorno pubblicò un articolo che descriveva la struttura del campo: “Il campo ‘S’, in contrada Sant’Andrea, si componeva di almeno quattro, forse cinque sotto-campi: ‘T’ per i reduci di Russia; ‘D’, ‘A’ e ‘R’, per i soldati delle SS e gli italiani che aderirono alla Repubblica di Salò. Ogni sotto-campo era suddiviso in settori numerati, chiamati ‘pens’ (pollai).” Oggi, di tutta la struttura principale del campo, rimangono ben pochi segni visibili. Si possono ancora osservare i basamenti delle baracche, l’impianto stradale e fognario, ma la memoria di quel luogo non deve essere dimenticata. Tra i primi contributi recenti si ricordano:
Il Contributo di Lucia Pulpo
Nel 2012, Lucia Pulpo pubblicò un articolo titolato, come veniva indicato dai giornali locali dell’epoca, “Il campo della fame”, perché i 10.000 detenuti, quasi tutti militari italiani, soffrivano la fame ed erano tenuti in condizioni igieniche precarie, quasi inesistenti. I “pollai” (come gli inglesi chiamavano i recinti con le tende dei detenuti) erano affollati di militari provenienti dalla X Flottiglia MAS, di “recalcitranti”, ma anche di militari italiani provenienti da campi di prigionia esteri, dall’isola di Creta, dall’Africa o dalla Grecia.
Il Contributo di Dina Turco
La ricercatrice Dina Turco, oltre ad aver effettuato studi e ricerche, ha raccolto una gran quantità di materiale documentale esposto durante un incontro organizzato nel 2017 dall’Associazione Nuova Taranto per raccontare la storia del Campo di Sant’Andrea. Attraverso giornali e corrispondenza dei comandi militari, Dina Turco ha raccontato il campo “S”, che, sotto il controllo britannico, ha visto il prolungamento della prigionia di quanti non avevano accettato il compromesso della cooperazione e che, per questo, subirono a guerra finita una carcerazione abusiva in condizioni di estrema indigenza.
Il contributo di Andrea Chioppa
Tra gli storici che si sono occupati di questo tema, il Presidente della Fondazione OMRI sottolinea il contributo rilevante di Andrea Chioppa, Vicepresidente dell’Università della Terza Età di Crispiano e coordinatore del comitato “Campo S” di Taranto. Chioppa ha scritto un interessante articolo, dal titolo “La storia dimenticata del campo di concentramento di Taranto”, pubblicato il 32 gennaio 2022, con il quale osserva che: “Questa è una di quelle pagine di storia che, col tempo, finiscono nell’oblio. Si tratta spesso di storie che racchiudono vicende scomode, episodi che suscitano vergogna e che quindi conviene gettare nel dimenticatoio. Come ogni ultima settimana di gennaio, in ogni città d’Italia, si celebrano una lunga serie di cerimonie e commemorazioni per la Giornata della Memoria e il ricordo della tragedia dell’Olocausto, della deportazione e dello sterminio di milioni di persone nei campi di concentramento ad opera dei nazisti. Tuttavia, non esistettero solo campi di concentramento nazisti. Diversi furono i campi di transito, prigionia e contumacia costruiti dagli alleati, principalmente dagli inglesi. La maggior parte di questi campi erano sparsi in Africa, Australia, Inghilterra, Grecia, India e nel Sud Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. In questi campi, di diversa tipologia e dimensione, furono internati decine di migliaia di prigionieri, tra cui migliaia di italiani. Giusto per citarne qualcuno, in Italia si ricordano i campi di Afragola (NA), Ferramonti di Tarsia (CS) e Altamura (BA).”
Fare memoria è un dovere morale
La memoria storica di eventi come questi – conclude Tagliente – è fondamentale per non dimenticare le atrocità del passato e per insegnare alle nuove generazioni il valore della pace e della solidarietà. Come sottolinea Andrea Chioppa, “Fare memoria è un dovere morale”. La storia del campo di Sant’Andrea deve rimanere viva, non solo per il rispetto verso chi vi ha sofferto, ma anche per il monito che offre alle future generazioni.