LE ISTITUZIONI E IL VALORE DEI SIMBOLI

Nella piena consapevolezza del ruolo mirabilmente incarnato nel corso della sua carriera, il prefetto Carlo Mosca, al quale è dedicata questa narrazione, aveva grande considerazione e grande apprezzamento degli argomenti relativi ai simboli e al protocollo di Stato.

(…)

Non esiste, non può esistere, un’istituzione che non si fondi su solidi elementi simbolici. Bandiera, inno e Capo dello Stato costituiscono i tre simboli fondamentali di una qualsiasi nazione. Non c’è Paese al mondo che non li rispetti e tuteli anche normativamente. Dall’attenzione che viene posta verso questi tre elementi, non solo attraverso le leggi, ma anche e soprattutto attraverso l’opera di sensibilizzazione ideologica e culturale rivolta ai cittadini, si comprende la solidità delle istituzioni e del contesto geopolitico nel quale un Paese è collocato in una determinata fase storica.

Uno spiacevole incidente diplomatico-commerciale si creò qualche anno fa tra uno Stato sovrano e la sede canadese di Amazon, che aveva pubblicato, per la vendita sul proprio sito, degli zerbini raffiguranti le bandiere delle nazioni. Il Ministro degli Esteri indiano si oppose fieramente a tale operazione. Il gesto di pulirsi le scarpe sulla bandiera fu ritenuto gravemente offensivo e fu intimato alla società di ritirare immediatamente il prodotto dal catalogo, pena severe ritorsioni, con richiesta di scuse ufficiali. Amazon ottemperò immediatamente.

Nel 2017 invece due giovani turisti italiani in Thailandia si resero artefici di un gesto tanto goliardico quanto sconsiderato: in un momento di euforica allegria strapparono alcune bandiere nazionali all’interno della metropolitana della capitale thailandese. Furono però immortalati dalle telecamere di sicurezza, individuati, prelevati in albergo e arrestati. Rischiarono il processo per oltraggio alla bandiera e una pena detentiva di due anni. Fu necessaria una delicata azione diplomatica da parte dell’ambasciata italiana per evitare il carcere ai ragazzi, che se la cavarono con una espulsione. I due giovanotti, per cercare di giustificarsi, non avendo compreso la gravità del gesto per la sensibilità locale e in qualche modo peggiorando la loro posizione, avevano dichiarato di non considerare la loro bravata particolarmente significativa: «In fondo in Italia si può fare!». Ciò non risponde al vero. L’articolo 292 del codice penale stabilisce severe sanzioni pecuniarie per “chiunque vilipende con espressioni ingiuriose la bandiera nazionale o un altro emblema dello Stato” fino a prevedere il carcere per chi “pubblicamente e intenzionalmente distrugge, disperde, deteriora, rende inservibile o imbratta” gli stessi simboli. Il successivo articolo 299 fissa ammende anche per coloro che offendono “la bandiera ufficiale o un altro emblema di uno Stato estero”. È già capitato anche che qualche esponente politico del nostro Paese abbia sperimentato a proprie spese la condanna per il reato di vilipendio.

Si è accennato all’attenzione più o meno accentuata verso i simboli in determinati momenti storici. Non si può negare che dal dopoguerra fino agli anni più cruenti della contestazione giovanile la diffidenza verso i simboli fondamentali nel nostro Paese è andata via via crescendo. L’ostilità era in parte giustificata dal rigetto post bellico rispetto alla retorica del ventennio fascista e all’accentuato conservatorismo monarchico di inizio secolo. Dopo i disastri della guerra, molti giovani ambivano ad un mondo senza frontiere e senza esaltazioni nazionalistiche. La bandiera e l’inno erano visti come baluardi di un passato pericoloso e anacronistico, il Presidente della Repubblica come una figura poco significativa nell’impalcatura dello Stato.

Il punto più basso della considerazione dell’opinione pubblica verso i simboli istituzionali giunse in coincidenza con la legge n. 54 del 1977, che soppresse le giornate festive per la festa nazionale della Repubblica e per la festa dell’Unità nazionale, insieme ad altre festività religiose. Con il trasferimento delle celebrazioni per queste due ricorrenze rispettivamente alla prima domenica di giugno e alla prima domenica di novembre venivano in sostanza depotenziati due importanti momenti evocativi, quello del 2 giugno, in cui si ricorda la nascita dello Stato repubblicano nel 1946, e quello del 4 novembre, in cui si celebrava l’entrata in vigore dell’Armistizio di Villa Giusti del 1918, che sanciva la fine della Prima Guerra Mondiale, vittoriosa per l’Italia.

Fu abolita la tradizionale parata militare del 2 giugno abbinata alla deposizione di corona all’Altare della Patria, adducendo ragioni legate ad un periodo di grave austerità economica. Riprese in tono minore fra il 1983 e il 1989 prima di essere nuovamente soppressa per un altro decennio.

La legge del 1977 che sopprimeva varie festività provocò proteste da parte dell’opinione pubblica che non condivideva il provvedimento, salvo poi ottenere i lavoratori dipendenti il riconoscimento delle festività soppresse nel calderone delle giornate di ferie annue. Ma l’indignazione diffusa non era tanto legata al senso civico nazionale per la perdita della celebrazione più importante della Repubblica, quanto alla rinuncia al giorno dell’Epifania del 6 gennaio, anch’esso sacrificato alle esigenze della produttività lavorativa. E infatti un DPR del 1985, il n. 792, ripristinò a furor di popolo la festa della Befana tra le altre festività religiose concordate con il Vaticano.

Fu il Presidente Carlo Azeglio Ciampi, a poco più di un anno dalla sua elezione a Capo dello Stato, ad imporre convintamene il ripristino della festività del 2 giugno, che infatti fu sancito con la legge n. 336 del 2000. Da quel momento la Festa della Repubblica non solo tornò ad essere celebrata ufficialmente, ma rapidamente crebbe e recuperò il giusto riconoscimento nella considerazione generale dei cittadini.

Proprio intorno alla giornata del 2 giugno 1946 questa trattazione vuole evidenziare lo straordinario significato che il protocollo dello Stato ha attribuito ai simboli supremi dell’Italia repubblicana: la bandiera, l’inno nazionale e la figura del Presidente della Repubblica. E vedremo a seguire come tutta l’altra simbologia pubblica, anch’essa rinverdita dall’opera di sensibilizzazione voluta dal Presidente Ciampi, attinga doverosamente a questo momento straordinario della nostra storia.

Domenica 2 giugno 1946 è una data che non si può dimenticare. Poco meno di un mese prima, il 9 maggio, il “luogotenente generale del Regno” Umberto di Savoia[1] era diventato Re d’Italia a seguito dell’abdicazione del padre Vittorio Emanuele III. Giusto il tempo di promulgare lo Statuto della Sicilia come regione autonoma e di indire le votazioni referendarie per il 2 giugno e il suo regno si concluse. Dopo la proclamazione del 10 giugno ad opera della Cassazione dei risultati provvisori, che sancivano la vittoria della Repubblica, e la decisione del 13 giugno da parte del Consiglio dei Ministri di nominare Alcide De Gasperi Capo provvisorio dello Stato, Umberto II si decise all’esilio in Portogallo.

Ma torniamo al 2 giugno. Il dato ufficiale dell’esito del voto parla di 12.718.641 italiani che espressero la loro preferenza per la Repubblica, contro 10.718.502 voti per la Monarchia. Due milioni di schede fecero la differenza e da quel momento iniziò la trasformazione dell’Italia. Nella stessa data avvennero altri due fatti di portata storica. Furono eletti i membri dell’Assemblea Costituente, che avrebbero dovuto redigere la nuova Costituzione, e per la prima volta votarono anche le donne. Il tutto basato su un altro dato particolarmente significativo per la neonata democrazia: votarono quasi 25 milioni di italiani, circa l’89% degli aventi diritto.

Che enorme ventata di novità attraversò il Paese in quelle giornate di giugno! Il 23 del mese l’Assemblea si insediò ufficialmente, eleggendo Giuseppe Saragat come Presidente[2]. Il giorno 28 fu eletto al primo scrutinio come Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola. Un primo aspetto formale e protocollare emerge in questo passaggio: De Nicola fu Capo provvisorio dal 1° luglio 1946 al 31 dicembre 1947; dal 1° gennaio 1948, con l’entrata in vigore della Costituzione, assunse il titolo di “Presidente della Repubblica” e conservò la carica fino al 13 maggio, dopo di che il Parlamento in seduta comune (e non più l’Assemblea Costituente che aveva cessato il suo mandato) elesse Luigi Einaudi al Quirinale. Prima della promulgazione della Costituzione, avvenuta il 27 dicembre 1947 non esisteva nel nostro ordinamento la figura del Presidente della Repubblica, per cui De Nicola al momento del suo insediamento fu denominato semplicemente Capo dello Stato. Acquisì giustamente la “qualifica” prevista dal Titolo II della Carta costituzionale dopo la sua entrata in vigore.

E qui una digressione sul valore dei termini e delle denominazioni, che hanno ragione di esistere in quanto in qualche parte del nostro ordinamento vengono declarati ed approvati. Ecco cosa induce i cerimonialisti a puntualizzare l’esatta formulazione di un appellativo attribuito ad una carica: a rigore un Presidente (della Repubblica, di una Camera o del Consiglio) resta tale al di là della questione di genere, e così anche per un ministro, un sindaco o un prefetto; per cui sarebbe una forzatura non corretta la definizione di Presidenta o ministra o sindaca o prefetta e così via. Allo stesso modo la definizione di Governatore per un Presidente di una Giunta regionale è del tutto impropria ed arbitraria.

Tornando al Presidente della Repubblica, col voto referendario e con la Costituzione del 1948 si modificò la rappresentazione del “simbolo persona”. I cerimonieri del Quirinale, con l’arrivo del nuovo inquilino, dovettero rinnovare di sana pianta le forme protocollari.

Alla figura del Re, Capo Supremo dello Stato “per la grazia di Dio” e per diritto ereditario secondo la legge salica, figura “sacra ed inviolabile”, che esercitava il potere legislativo insieme alle Camere ed era titolare del potere esecutivo, si sostituì la presenza di un cittadino di almeno 50 anni di età, eletto ogni sette anni in seduta comune dalle Camere e dai delegati delle Regioni, con compiti di garanzia e di rappresentante dell’unità nazionale. Con l’assetto democratico, repubblicano e parlamentare cambiavano radicalmente le modalità della sua presenza simbolica nelle cerimonie pubbliche. Non c’erano precedenti nella storia del Paese e pochi erano anche i riferimenti internazionali, in un’Europa in cui la rappresentanza dei Capi di Stato era riferita ancora a una corposa presenza delle antiche monarchie o a un’opera di ricostruzione diffusa anche a livello istituzionale dopo le rovine della guerra o al consolidarsi dell’esperienza comunista nei Paesi dell’Est.

Nuove modalità di rappresentanza pubblica e di comunicazione si palesavano per il Simbolo Persona della Repubblica Italiana. La figura del Presidente si è collocata in origine un po’ in sordina nell’assetto istituzionale del Paese, ma pian piano nel tempo e a seguito delle crescenti difficoltà e complicazioni negli equilibri politici e nel perseguire l’orientamento costituzionale, il peso e la personalità dell’uomo del Quirinale si sono palesati di importanza fondamentale, fino a renderlo punto di riferimento insostituibile. Conseguentemente è cresciuta l’attenzione nella cura della forma della sua presenza nelle cerimonie pubbliche, nel misurare la concretezza delle sue indicazioni e delle sue esternazioni, nel tener conto del suo ruolo per il mantenimento degli equilibri interni e nelle relazioni internazionali.

Riguardo agli altri due simboli fondamentali, sappiamo tutti del nostro Tricolore, assurto a dignità costituzionale nei principi fondamentali della nostra Carta, all’articolo 12: “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni”. La storia della nostra bandiera risale alla fine del Settecento. Fu individuata ai tempi della Repubblica di Genova nel 1789, poi nei moti studenteschi bolognesi del 1794. Fu però la Repubblica Cispadana ad assumere ufficialmente i tre colori in un vessillo a bande orizzontali con al centro un emblema composto da una faretra, trofei di guerra e quattro frecce, che simboleggiavano le province originali, all’interno di una corona di alloro. Era il 7 gennaio 1797 quando a Reggio Emilia, nell’aula consiliare del Comune oggi ribattezzata Sala del Tricolore, fu promulgato il decreto di adozione del vessillo della nuova repubblica con questa descrizione: « […] che si renda universale lo stendardo o bandiera cispadana di tre colori, verde, bianco e rosso e che questi tre colori si usino anche nella coccarda cispadana, la quale debba portarsi da tutti». Il momento è altamente simbolico per la storia della nostra bandiera e per la storia d’Italia, tanto che oggi si celebra nella data del 7 gennaio la “Giornata nazionale della bandiera” con cerimonie tenute a Reggio Emilia e imbandieramenti istituzionali in tutto il Paese.

Dopo la Restaurazione il tricolore ebbe alterne vicende. Lo ritroviamo nel Regno di Sicilia, nella Repubblica di San Marco e nell’esercito di Carlo Alberto di Savoia dal 1848 al 1849. Giuseppe Mazzini adottò quei colori per il vessillo della Giovine Italia su cui campeggiavano le scritte: da un lato: “Libertà, Uguaglianza, Umanità”; dall’altro: “Unità, Indipendenza”.

Finalmente divenne bandiera del Regno di Sardegna prima e dello Stato italiano dal 1861. Il Tricolore fu vessillo del Regno d’Italia fino al 1946, recando al centro del campo bianco lo scudo di Casa Savoia bordato d’azzurro.

L’avvento della Repubblica indusse alla modifica della bandiera, con la rimozione dei simboli sabaudi. Una normativa recente, il DPR 121/2000, stabilisce che su di essa e sull’asta che la reca, non si devono applicare figure scritte o lettere di alcun tipo. In ogni caso, la dignità della bandiera impone che esse “sono esposte in buono stato e correttamente dispiegate”. Sono o dovrebbero essere tali, diciamo noi, tenuto conto delle misere condizioni in cui spesso vengono mostrate dai balconi degli edifici pubblici, senza che sia stata posta una sanzione per evitare l’offesa a questo simbolo fondamentale.

L’origine del nostro inno nazionale risale invece al 1847 quando Goffredo Mameli scrisse “Il canto degli Italiani” e chiese a Michele Novaro di musicarlo. La sua popolarità risuonò per tutto il Risorgimento, ma dall’Unità d’Italia in poi godette di scarsa fortuna. I Savoia preferirono la Marcia Reale, il fascismo i canti inneggianti al regime e al suo duce. Nell’immediato dopoguerra guadagnò maggiore popolarità la “Leggenda del Piave”, nota anche come “La Canzone del Piave” o “Il Piave mormorava”, scritta nel 1918 da E. A. Mario, paroliere e compositore napoletano.

Dopo il referendum del 2 giugno 1946 però il Governo doveva affrettarsi a decidere per il nuovo inno repubblicano. La scelta sembrò controversa, con un’indecisione fra “Il canto degli Italiani”, la citata “Leggenda del Piave”, il “Va pensiero” di Verdi, l’ “Inno di Garibaldi” o l’ipotesi di un canto completamente nuovo. Approssimandosi la data del 4 novembre, nella quale si celebrava la fine della Prima Guerra Mondiale, il 12 ottobre in Consiglio dei Ministri fu alla fine presa la decisione: “Su proposta del Ministro della Guerra si è stabilito che il giuramento delle Forze Armate alla Repubblica e al suo Capo si effettui il 4 novembre p.v. e che, provvisoriamente, si adotti come inno nazionale l’inno di Mameli”.

Per effetto di quella decisione “provvisoria” l’inno di Mameli continuò ad essere suonato e cantato negli anni successivi in tutte le manifestazioni di carattere celebrativo, militare, sportivo, musicale, nella resa degli onori e nelle inaugurazioni ufficiali. Solo nel dicembre del 2017 la Legge n. 181 riconobbe formalmente e definitivamente il “Canto degli italiani” di Goffredo Mameli e lo spartito musicale originale di Michele Novaro quale inno nazionale della Repubblica. In un iter ancora incompleto e lungo da portare a compimento, un D.P.R. tuttora in corso di realizzazione dovrà definire e specificare le modalità di esecuzione dell’inno.

Queste, in sintesi, le vicende legate all’adattamento dei tre simboli fondamentali dello Stato con l’avvento della Repubblica. Ma dopo il 2 giugno 1946 si dovette necessariamente intervenire anche su altri aspetti simbolici e rappresentativi che il nuovo assetto istituzionale imponeva. Ne descriviamo qualcuno: l’emblema della Repubblica, le cerimonie all’Altare della Patria, la soppressione degli Ordini dinastici e l’istituzione degli Ordini al Merito, l’araldica pubblica, fino alla forma della presenza delle cariche istituzionali nelle cerimonie.

L’emblema della Repubblica è il principale simbolo araldico dello Stato repubblicano. Rappresenta gli Organi Costituzionali e le Amministrazioni dello Stato nelle loro articolazioni centrali e periferiche. Fu l’Assemblea Costituente ad approvarlo il 31 gennaio 1948 a seguito di due concorsi di idee nazionali aperti a tutti i cittadini. Con il passaggio dalla monarchia alla nuova forma di Stato era necessario provvedere alla sostituzione dell’emblema. Fino alla data del 2 giugno era in uso lo stemma di Casa Savoia, particolarmente ricco di raffigurazioni. La sua prima edizione approvata dalla Consulta araldica nel 1870 conteneva lo scudo dei Savoia, corona ed elmo reali, croci, guidoni, le insegne dell’Ordine della Santissima Annunziata e degli altri Ordini dinastici, due leoni rampanti, velluti, rasi, armellini, frange e svolazzi. La blasonatura araldica conteneva una descrizione di ben 305 parole. Nel 1890 lo stemma fu arricchito ulteriormente. Poi nel 1926 Mussolini proclamò il fascio littorio “emblema dello Stato”, finché nel 1929 i leoni dello stemma reale furono sostituiti con regio decreto da due fasci. Con la caduta del fascismo furono immediatamente rimosse tutte le rappresentazioni simboliche acquisite dal regime, compresi i fasci littori, che, pur essendo di antiche origini romane e utilizzati comunemente in araldica come espressione di forza e di potenza, furono immediatamente cancellati anche dallo stemma, ripristinato con decreto luogotenenziale dell’ottobre 1944 nella versione approvata nel 1890.

Per la giovane Repubblica, i concorsi relativi al nuovo emblema ponevano come vincolo assoluto l’utilizzo della Stella d’Italia, antico simbolo del territorio nazionale risalente all’era greco-romana. Il primo tentativo non soddisfece appieno i selezionatori del bozzetto, per cui il concorso fu ripetuto, chiedendo ai concorrenti di dare risalto al tema del lavoro. Dopo vari aggiustamenti s’impose il progetto di Dario Paschetto, che introdusse come simbolo degli Organi dello Stato l’immagine che in gergo è conosciuta da tutti come lo “Stellone”, la stella a cinque punte sovrapposta a una ruota dentata rappresentante il lavoro, racchiuse da un ramo di ulivo e uno di quercia, simboleggianti la pace, la forza e la dignità, con la scritta “Repubblica Italiana”, il tutto in una blasonatura di 45 parole. Con un decreto legislativo pubblicato in Gazzetta Ufficiale, dal 29 maggio 1948 lo “Stellone” è emblema della Repubblica.

L’assetto araldico delle Istituzioni si completa con quanto la normativa prevede per enti territoriali, comunità montane, comunità isolane, consorzi, unioni di comuni, enti con personalità giuridica, banche, fondazioni, università, società, associazioni, Forze armate e Corpi ad ordinamento civile e militare dello Stato.

Potremmo dire: c’era una volta la Consulta araldica. Fu istituita nel 1869 ed era un organo consultivo per l’esame di questioni araldiche. Collocata in origine presso il Ministero dell’Interno, con un regio decreto di riforma del 1943, il n. 651, fu trasferita presso la Presidenza del Consiglio. Nella sua ultima edizione era composta da 18 membri, definiti “consultori”: il Duce del Fascismo ne era presidente e ne facevano parte il primo presidente della Corte Suprema di Cassazione, il presidente del Consiglio di Stato, il presidente della Corte dei Conti, l’Avvocato generale dello Stato (membri di diritto); due rappresentanti del Gran Consiglio del Fascismo, due senatori, due consiglieri della Camera dei fasci e delle corporazioni, quattro in rappresentanza delle famiglie nobili iscritte nel Libro d’oro della nobiltà italiana, quattro in rappresentanza dei regi istituti storici, delle regie deputazioni e delle regie società di storia patria (membri scelti); cancelliere della Consulta era il capo dell’Ufficio araldico. Il successivo regio decreto n. 652/1943 conteneva il regolamento per il funzionamento della Consulta, corredato di una nutrita descrizione dei componenti e del vocabolario araldici.

La Consulta regolava la concessione di titoli nobiliari, i conferimenti di titoli di città, le autorizzazioni a fregiarsi di Ordini equestri stranieri o pontifici. Il R.D. 651 era intitolato “Ordinamento dello stato nobiliare italiano” e prevedeva tra l’altro la concessione dei titoli di Principe, duca, marchese, conte, visconte, barone e nobile da parte del sovrano. I relativi provvedimenti erano definiti “di Grazia” o “di Giustizia”. I primi erano concessi motu proprio dal re o su proposta del duce con decreto reale; i secondi con decreto del Capo del Governo.

La Costituzione repubblicana naturalmente dovette occuparsi dell’abolizione dei titoli e della complessa articolazione dell’aristocrazia nazionale. La XIV disposizione transitoria stabilì pertanto il non riconoscimento dei titoli nobiliari e la soppressione della Consulta araldica.

Spariva definitivamente la nobiltà, ma non l’esigenza degli enti di acquisire e di ottenere il riconoscimento ufficiale dello Stato per i loro simboli araldici. Fu così che un Ufficio della Presidenza del Consiglio continuò il lavoro di legittimazione araldica degli stemmi, dei gonfaloni, delle bandiere e dei sigilli proposti da comuni, province, enti, corpi militari, eccetera. Un DPCM del 2011 ha infine riordinato le competenze dell’Ufficio in materia di onorificenze pontificie e araldica pubblica, puntualizzando le relative procedure che si concludono attraverso l’emanazione di decreti del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Le regole araldiche per la concessione degli stemmi sono rigorose e pienamente aderenti alle descrizioni tradizionali. È previsto uno scudo sannitico moderno con proporzioni ben definite e una corona sovrastante lo scudo differenziato per province, comuni con titolo di città, comuni ed altri enti. La scelta dei colori, delle immagini naturalistiche o architettoniche rappresentate, oltre ad essere coerenti con le regole di blasonatura, devono simbolicamente evocare la tradizione storica e ambientale del luogo e della comunità per la quale si richiede la rappresentazione. Gli stemmi vengono riprodotti sui gonfaloni, anch’essi di proporzioni e dimensioni descritte dalla normativa, con specifiche dettagliate relative alle parti metalliche, ai rivestimenti, alle frange, ai ricami, alle iscrizioni, che devono essere differenziati a seconda del tipo di ente. Insomma, la simbologia araldica è rigorosa e l’iter degli enti locali per ottenere il riconoscimento del Capo dello Stato è subordinato ad un voto consiliare a maggioranza qualificata.

Anche per il sistema delle onorificenze si imponeva un intervento normativo radicale. Nell’ultimo secolo l’Italia era passata da una molteplicità di Stati monarchici preunitari, al Regno di Casa Savoia, prima di approdare alla Repubblica. La tradizione dinastica in materia di concessioni onorifiche era molto attiva e vivace e il sistema delle concessioni si portava dietro incrostazioni di riconoscimenti individuali vari da parte delle diverse case regnanti delle dinastie europee.

Col Regno d’Italia si imposero gli Ordini della tradizione dei Savoia, alcuni dei quali di origini antichissime. Fra tutti svettava l’Ordine supremo della Santissima Annunziata, risalente all’antica Contea di Savoia. Nato nel 1362 come Ordine del Collare, nel 1518 assunse la denominazione della Santissima Annunziata. Era uno dei quattro storici Ordini di collana d’Europa, insieme all’Ordine della Giarrettiera nel Regno Unito, il Toson d’Oro in Borgogna, nell’Impero Austro Ungarico e tuttora attivo in Spagna, e l’Ordine di San Michele nel Regno di Francia. Gli insigniti di quest’Ordine godevano di privilegi assoluti: erano esentati dal pagamento di tasse e imposte, venivano equiparati ai parenti stretti del sovrano e definiti “cugini del re”, avevano la facoltà di rivolgersi con il “tu” al sovrano, godevano del titolo di “eccellenza”, ricevevano gli onori militari e avevano la precedenza protocollare davanti a tutte le cariche dello Stato, subordinando la loro posizione soltanto ai cardinali.

Altri Ordini del Regno erano l’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, l’Ordine militare di Savoia, l’Ordine della Corona d’Italia, l’Ordine coloniale della Stella d’Italia, l’Ordine civile di Savoia, l’Ordine al merito del Lavoro.

Dopo il 2 giugno del ’46 e la soppressione degli ordini dinastici, si palesò un vuoto abissale sul fronte delle onorificenze. Non che fosse ritenuto un problema prioritario per la nascente repubblica, ma sicuramente l’assenza di un riconoscimento “al Merito” in breve si fece sentire e determinò anche qualche imbarazzo. Nel vuoto normativo determinatosi al riguardo, nacquero e proliferarono diversi ordini privati, definiti “indipendenti”, di dubbia provenienza ed autenticità. Furono contati più di 170 di questi ordini, senza alcuna legittimazione o riconoscimento ufficiale. Naturalmente si trattava di un’attività remunerativa per chi la esercitava, promettendo titoli e dignità senza alcun fondamento.

Tra i primi parlamentari della Repubblica qualcuno sosteneva che fosse decisamente inopportuno dedicare attenzione alla questione della mancanza di un’onorificenza formale repubblicana nei difficili anni della ricostruzione post bellica. Il problema fu rilevato però in occasione di una visita ufficiale in Italia, nell’ottobre del 1950, del Principe Ranieri di Monaco, che era sovrano del Principato dal maggio del 1949. Era ed è tuttora prassi consolidata che in occasione di visite di Stato gli alti Vertici istituzionali scambino onorificenze dei rispettivi Paesi. L’Italia repubblicana era priva di un suo sistema onorifico, per cui si sopperì assegnando a Ranieri III la Croce al Merito di Guerra, riconoscimento che veniva concesso ai combattenti delle due guerre mondiali e che, per la verità, il Principe indossò con orgoglio. La motivazione pare che sia stata, più o meno: “Per speciali benemerenze rese all’Italia durante la seconda guerra mondiale”. Poi lo Stato italiano rimediò alla carenza palesatasi nella circostanza, attribuendo in seguito a Ranieri il titolo di Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone. Era il 1953 e da due anni era stato finalmente istituito l’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Il Parlamento si era infine deciso a mettere mano al discorso delle onorificenze, anche in ossequio a quanto previsto dall’ultimo comma dell’articolo 87 della Costituzione, che prevede che il Capo dello Stato “conferisce le onorificenze della Repubblica”. La Legge n. 178/1951 istituì l’Ordine al Merito della Repubblica Italiana (OMRI), il massimo riconoscimento concesso dal Capo dello Stato, rivolto a cittadini italiani e stranieri viventi per benemerenze acquisite verso la Nazione nel campo delle scienze, delle lettere, delle arti, dell’economia e nel disimpegno di pubbliche cariche e di attività svolte ai fini sociali, filantropici ed umanitari, nonché per lunghi e segnalati servizi nelle carriere civili e militari.

Era necessario che la massima onorificenza del Paese fosse arricchita di forti contenuti simbolici. E così, stabilito un contingente annuo, l’azione per insignire i destinatari è prevista due volte l’anno, nelle date più significative della storia repubblicana: il 2 giugno, festa, appunto, della Repubblica, e il 27 dicembre, in ricordo della promulgazione della Costituzione, avvenuta nella stessa giornata del 1947. Inoltre, tutti gli atti più importanti relativi alle concessioni avvengono con decreto a firma del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, dal contingente alla composizione delle liste degli insigniti, alle revoche. Al Presidente della Repubblica, inoltre, è riconosciuta l’iniziativa motu proprio, con la quale può procedere autonomamente e in qualsiasi momento dell’anno a concedere onorificenze. Anche in questo caso il decreto è controfirmato dal Presidente del Consiglio.

Insomma, l’onorificenza “al Merito”, al contrario dell’antica onorificenza dinastica, costituisce un riconoscimento e una gratificazione dal valore morale, che non comporta benefici economici né consente di guadagnare posizioni nell’ordine delle precedenze delle cariche pubbliche, di cui parleremo fra poco. È un “bravo!” e un “grazie!” che il Capo dello Stato, supportato dal Capo del Governo, elargisce a nome della Nazione ai cittadini meritevoli sotto il profilo lavorativo, dell’ingegno, dello studio, della ricerca, dell’arte, dello sport, dell’impegno sociale o del volontariato. Ha un peso puramente simbolico, che si concretizza accedendo dal livello iniziale di cavaliere e progredendo negli anni e per nuovi meriti acquisiti, attraverso i gradi di ufficiale, commendatore, grande ufficiale e cavaliere di gran croce.

Oltre alla massima espressione dell’OMRI, l’ordinamento nazionale si è arricchito di altri Ordini, che potremmo definire settoriali, in parte derivati dal sistema onorifico del periodo monarchico: l’ “Ordine Militare d’Italia”, derivante dall’antico Ordine Militare di Savoia; l’ “Ordine della Stella d’Italia”, istituito nel 2011 presso il Ministero degli Affari Esteri, per benemerenze nella promozione dei rapporti di amicizia e di collaborazione tra l’Italia e altri Paesi; l’ “Ordine al merito del Lavoro”, esistente fin dal 1901 e riordinato nel 1952 e nel 1986, destinato ai cittadini italiani benemeriti nelle attività imprenditoriali, creditizia e assicurativa; infine, nel 1968 l’ “Ordine di Vittorio Veneto”, ha inteso gratificare i combattenti della prima guerra mondiale. Oggi ha esaurito il suo compito non essendoci più cittadini da insignire.

In una trattazione sui simboli delle istituzioni merita un ragionamento particolare la presenza delle cariche pubbliche nelle cerimonie. Parliamo del loro “piazzamento”, di ciò che prevede il cerimoniale a proposito della modalità con cui vengono attribuiti i loro posizionamenti in occasione di un evento. L’argomento è delicato e va affrontato con la dovuta saggezza. Sappiamo che una parte dell’opinione pubblica considera questi momenti come una inutile e ridondante fiera della vanità: la lotta di persone “importanti” per guadagnare o tutelare la propria visibilità in occasioni mediaticamente rilevanti. È doveroso porre la questione in una chiave di corretta interpretazione delle radici e delle finalità che sottendono ad una delle attività più delicate, laboriose e pericolose dell’ingrato compito dei cerimonialisti. Si può rischiare il posto per un’assegnazione sbagliata!

Intanto chiariamo un punto: perché si parla di ordine delle precedenze in una trattazione sui simboli delle istituzioni? Perché il cosiddetto piazzamento non è riferito alle singole personalità, all’uomo o alla donna che riveste una carica, bensì alla carica in sé, al ruolo, alle attribuzioni, alla consistenza, al peso che quella carica riveste nell’ambito dell’assetto istituzionale di una nazione. La carica, non la persona. Non a caso, e non è un paradosso o una contraddizione, dobbiamo partire da due enunciazioni fondamentali per determinare i principi ispiratori di una questione un po’ controversa. Quelli contenuti nell’articolo 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) e nell’articolo 2 della Dichiarazione universale dei diritti umani (“Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciate nella presente Dichiarazione senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica, o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”). Assolutamente simili ed omogenei nei contenuti, ma permettete di rivendicare la primazia dei nostri Padri Costituenti, che hanno elaborato il testo almeno un anno prima del più rappresentativo consesso mondiale delle Nazioni Unite[3].

L’ordine delle precedenze non è quindi, né poteva essere un ordine di persone, ma una doverosa attenzione al peso, alla rilevanza istituzionale delle cariche pubbliche. Tale peso, tale rilevanza sono descritti dagli atti normativi e fondativi delle istituzioni, quelli che ne stabiliscono la natura e l’organizzazione, prima fra tutti, ancora una volta, la Costituzione: la nostra Carta del 1948, che enuncia la distribuzione e l’equilibrio dei poteri, che descrive gli Organi Costituzionali gli Enti territoriali, gli Organi ausiliari, la Pubblica Amministrazione, l’Ordinamento giurisdizionale.

In definitiva, anche sotto questo aspetto parliamo di simboli; ognuna delle cariche che trovano collocazione in un posto assegnato in base all’ordine delle precedenze, simbolicamente rappresenta un pezzettino, più o meno grande, più o meno pesante, dello Stato repubblicano. La sequenza con la quale le autorità vengono sistemate è una rappresentazione vivente della graduale articolazione dell’apparato istituzionale, politico e amministrativo, dello Stato.

Non a caso, con l’avvento della Repubblica anche in questo ambito si è dovuto intervenire massicciamente per sostituire un precedente assetto delle cariche istituzionali. Il DPCM 14 aprile 2006, modificato con DPCM 16 aprile 2008, che detta “Disposizioni generali in materia di cerimoniale e di precedenza tra le cariche pubbliche”, ha definito al suo interno in maniera abbastanza esteso, anche se non esaustivo, l’ordine con cui i rappresentanti delle istituzioni esercitano legittimamente il democratico bilanciamento dei poteri. Tale norma è intervenuta a colmare il vuoto determinatosi dall’inutilizzabilità dei contenuti del Regio Decreto 16 dicembre 1927, n. 2210, che regolava “l’Ordine delle precedenze a Corte e nelle funzioni pubbliche” in era fascista, che a sua volta aveva inteso modificare e correggere il precedente Regio Decreto 19 aprile 1868, n. 4349, con il quale Vittorio Emanuele II aveva promulgato “l’ordine per le precedenze tra le varie cariche e dignità a Corte e nelle funzioni pubbliche”. Ogni Stato, ogni ordinamento, è costretto a intervenire per modellare la rappresentatività delle figure istituzionali a seconda dei propri dettami.

In parte è vero: nei fatti quotidiani molto spesso ci si deve confrontare con le debolezze e le presunzioni umane, le pretese di ben comparire in prima linea, l’arroganza del “Lei non sa chi sono io!”. È bene precisare che non si parla qui solo di miserie nazionali, l’improntitudine non è solo caratteristica nostrana. Chi ha frequentato palcoscenici e platee internazionali può testimoniare che l’egocentrismo e la vanità umana non ha confini territoriali, ma è patrimonio comune certamente mondiale… non so se universale, non ho dati al riguardo dagli altri pianeti.

In ogni caso deve o dovrebbe essere a tutti chiaro che la rappresentanza per le persone è frutto di uno status esercitato pro tempore. Le persone passano, l’istituzione o l’ente rappresentato resta ed è in suo nome e nel rispetto ordinamentale in cui esso si colloca, che viene regolamentata la posizione e la precedenza fra le cariche.

Non è un caso se concludiamo l’excursus sui simboli istituzionali focalizzandoci sull’Altare della Patria. Il Vittoriano è esso stesso un simbolo, non solo della Repubblica italiana, ma, prima ancora, dello Stato Unitario. Nacque infatti per tale scopo. L’inizio dei lavori per realizzare un monumento imponente dedicato a Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, risale al 1885. Erano passati 24 anni dall’unificazione e 14 dal trasferimento della Capitale a Roma. L’opera fu inaugurata nel 1911, in coincidenza con il cinquantesimo anniversario dell’unificazione. L’enorme statua equestre dedicata al “Re galantuomo” testimonia tuttora l’origine celebrativa in onore del Regno d’Italia.

Negli anni successivi l’edificio fu caricato di un’altra potente simbologia. Nel 1921, nello spazio sottostante alla statua di Vittorio Emanuele e ai piedi di una statua della dea Roma, un’imponente raffigurazione della divinità che personificava l’antica città di Roma e il suo Stato, fu inumata la salma di un soldato senza nome deceduto nel corso della Prima Guerra Mondiale sul fronte nord-orientale. Il Milite Ignoto fu individuato nella città di Aquileia fra undici soldati senza nome; la scelta affidata ad una mamma triestina, il cui figlio era risultato disperso durante il conflitto. La cerimonia di inumazione all’Altare della Patria si svolse il 4 novembre di quell’anno. Da allora due bracieri ardono perennemente e due militari si alternano quotidianamente a presidiare il sacello.

Simboli profondi e rappresentativi di storia e di sacrificio umano. In particolare, il Milite Ignoto ricorda tutti i soldati che hanno perso la vita in nome della Patria. La sua custodia è affidata alle Forze Armate.

L’Altare della Patria non è espressione unica e originale di un simile omaggio. Monumenti dedicati a soldati ignoti scomparsi durante le guerre sono presenti in numerosi Paesi del mondo. Ognuno ricorda le proprie vittime ed i propri eroi. Fra le altre, ricordiamo le tombe dei militi ignoti sotto l’Arco di Trionfo a Parigi, nell’Abbazia di Westminster a Londra e ad Arlington, alle porte di Washington, dove riposano The Unknown Soldiers di tre diversi conflitti che hanno coinvolto la nazione americana.

Tornando a casa nostra, all’Altare della Patria in Piazza Venezia si svolge tre volte l’anno una cerimonia altamente rappresentativa dell’Unità nazionale. Nelle date significative del 25 aprile (Festa della Liberazione dal nazi-fascismo), del 2 giugno (Festa della Repubblica) e 4 novembre (Festa delle Forze Armate) il Presidente della Repubblica, accompagnato dai Presidenti degli Organi Costituzionali (Senato, Camera, Presidenza del Consiglio e Corte Costituzionale) percorre la scalinata del Vittoriano per deporre una corona d’alloro al sacello del Milite Ignoto. In queste fondamentali ricorrenze della storia del nostro Paese i massimi rappresentanti delle istituzioni rendono omaggio alla memoria del Novecento (il cosiddetto “Secolo breve”), alle vite spezzate, alle sofferenze e ai sacrifici di un popolo, alle speranze, alle aspettative, ai progetti, ai sogni di sviluppo e di crescita dell’intera nazione, in nome della libertà, dell’uguaglianza e della modernità.

In nome di questi straordinari valori le massime Istituzioni e tutti i più alti simboli dello Stato convergono in una breve ma intensa cerimonia celebrativa. Viene issato il tricolore sui pennoni del Vittoriano e risuona per ben tre volte l’inno nazionale, intervallato dalla Canzone del Piave durante l’ascesa della scalea; fanno da contorno altri rappresentanti civili e militari, nazionali e territoriali, uno schieramento militare interforze, il corpo dei corazzieri che punteggiano la scalea, mentre la Pattuglia Acrobatica Nazionale, le celebri Frecce Tricolori, suggellano con il loro passaggio la solennità del momento.

A questo punto della trattazione, si pone ad avviso dello scrivente qualche interessante considerazione. Qui si parla di Istituzioni e del loro rapporto con i simboli. Per le antiche monarchie che hanno dominato l’Europa nei secoli scorsi i comportamenti pubblici erano finalizzati alla glorificazione della figura del sovrano e della famiglia reale. Si discute se Luigi XIV re di Francia abbia mai pronunciato la frase “L’état, c’est moi”. Che l’abbia detta o meno, il concetto è molto confacente all’idea di monarchia assoluta di cui il “Re Sole” si rese artefice e interprete, attribuendo tale forma di assolutismo al “diritto divino”. “Grazie a Dio” (osiamo dire in contrapposizione all’affermazione precedente), negli Stati democratici e repubblicani moderni la posizione dei rappresentanti istituzionali rispetto allo Stato e ai simboli che lo rappresentano è reso, come già sottolineato, in ragione della volontà popolare, del ruolo, della carica, delle interrelazioni nazionali e internazionali, della distribuzione e dell’equilibrio dei poteri. La loro presenza sulla scena è transitoria e non ereditabile e non può prescindere dal peso e dal significato della memoria storica. L’approccio ai simboli è un doveroso omaggio e non è ammissibile nessuna forma di esaltazione personalistica, né di trasgressione denigratoria o che sia volta a ridimensionarli. In quanto simboli rappresentano la Nazione, la sua forma di Stato, la storia, le tradizioni, i suoi caduti, le sue conquiste, le sue sconfitte.

(…)

La Storia di una Nazione, il ruolo esemplare delle figure istituzionali che hanno contribuito e contribuiscono concretamente a realizzare i suoi contenuti ideali, il suo assetto formale, i suoi riferimenti normativi e la sua organizzazione, costituiscono la dignità dello Stato e la testimonianza di una coscienza collettiva. Lo Stato è un’entità complessa, impegnativa, a volte contraddittoria, che deve però avere l’unica vocazione di migliorare la vita dei suoi cittadini ed i rapporti con la comunità internazionale. È una sfida quotidiana che non può cedere a spinte populiste o a eccessi demagocici ed in cui i valori della memoria, della pace, della libertà e della democrazia hanno bisogno di appoggiarsi a simboli forti e ampiamente condivisi.

Questo testo di Enrico Passaro è tratto dal capitolo “Le Istituzioni e il valore dei simboli”, contenuto nel volume “PRO BONO COMMUNI – Scritti in onore di Carlo Mosca”, curato da Marco Valentini e Guido Melis, che riporta saggi di eminenti rappresentanti delle Istituzioni. Il libro, edito da Editoriale Scientifica di Napoli, è stato pubblicato nel novembre del 2023.

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[1] Il 5 giugno 1944, poco dopo il suo trasferimento a Salerno (anzi, nell’incantevole Ravello, in Costiera Amalfitana), il re Vittorio Emanuele III aveva nominato luogotenente il figlio Umberto, col compito di curare gli affari di Stato per suo conto.

[2] Negli ultimi mesi dei lavori a Saragat seguì alla presidenza dell’Assemblea Umberto Terracini.

[3] L’Assemblea Costituente approvò la Costituzione della Repubblica Italiana il 27 dicembre 1947. Essa entrò in vigore dal 1° gennaio 1948. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo fu approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.

Enrico Passaro